Amore e sangue a Budapest

Sabato 3 Novembre

– Ferenc! Ferenc, dove vai?

Ferenc si girò, guardando la lunghissima prospettiva dell’Andràssy Ut, coi suoi alberi spogli. Sàndor arrivava quasi di corsa verso di lui, sorridente. Sorrideva sempre, Sàndor; sembrava sempre felice, spensierato. Studiavano assieme al Politecnico. Erano amici? Ferenc non avrebbe saputo dirlo. Lui così schivo, sempre immerso in pensieri profondi e astratti, taciturno, lunare… e Sàndor il suo opposto, solare, comunicativo. Non superficiale, assolutamente… semplicemente aperto alla vita, con immediatezza e semplicità. Col sorriso. Ferenc voleva bene al compagno, in quel suo modo privo di manifestazioni esteriori, così misurato. Introspettivo com’era, mentre aspettava che Sàndor lo raggiungesse, il bruno e massiccio Ferenc fece una rapida istantanea delle loro vite così diverse. Dei loro caratteri opposti eppure destinati a stare vicini. Lui stava andando, immerso nei suoi pensieri, alle terme Szécheny. Amava quelle terme, ed era capace di stare immerso nell’acqua per lunghi periodi pensando al mondo, all’Ungheria, al compito storico tremendo che si erano assunti sin da quando, due martedì prima, si era orgogliosamente unito ai suoi compagni che manifestavano davanti al sommo Petõfi. Nagy era stato fischiato. Un errore politico. La loro unica speranza era Nagy, e si era poi ben visto che stava dalla loro parte. Stava andando alle terme, appunto, per schiarirsi le idee sulle mosse da fare. Domani avrebbe dovuto arringare gli operai di Pest, forse un po’ troppo frettolosi e agitati. Bisognava procedere con cautela, non bisognava tirare troppo la corda col Grande Orso, che sembrava ormai pronto ad azzannare il popolo ungherese…

– Ferenc, maledetto bastardo! Dove vai, alle terme come al solito?

– Piglia fiato, Sàndor. Perché non vieni anche tu? Potremmo…

– Un accidenti! Le terme con te sono peggio di una lezione col vecchio Gerlö. Io voglio divertirmi. Finché posso.

Un ombra oscurò per un attimo il bel viso di Sàndor, sull’ultima frase. Anche Ferenc abbassò un attimo gli occhi, sentendo una subitanea stretta nell’anima. “Finché posso. Finché saremo vivi…”

– Beh, e cosa proponi?

Sàndor si illuminò nuovamente, come suo solito, e uno sguardo malizioso gli attraversò il viso da furetto. 

– Guarda caso, mio filosofico amico, siamo molto vicini alla casa della signora Margit…

– Un bordello?

– “Un bordello?” – ripetè Sàndor imitando una voce indignata – Non è un bordello, mio puritano compagno di avventure, l’Ungheria socialista non ammette i bordelli ché sono rappresentazioni del decadentismo capitalista. E comunque la casa della signora Margit è IL bordello! A Buda non troverai di meglio e sono arrivate da poco certe ragazze nuove…

– La prostituzione è un volgare commercio borghese di corpi…

– Oh! per i baffi di Petõfi, ma ti hanno fatto il lavaggio del cervello? Ma non sei Ferenc il rivoluzionario, Ferenc l’allievo di Lukács, il filosofo del Politecnico acclamato da noi poveri studenti provinciali? E sei così moralista?

– Ma è un bordello!

– Non dirmi che sei vergine! Arrossisci, sei vergine!

– Ma che c’entra…

– Ah, vecchio amico, i sovietici ci stanno per sbranare e tu sei vergine! Questo è sufficiente per dannarti per l’eternità, lo sapevi? Vieni – concluse con tono risoluto tirando Ferenc per la giacca – ormai ogni notte potrebbe essere l’ultima, e se così deve essere, che sia fra le braccia profumate di Klàra. Ti ho parlato di Klàra? È piccolina e morbida, dolcissima, con due piccoli seni candidi…

***

La casa era a Újlipótváros, fra le terme e il Danubio, e in dieci minuti i due giovani arrivarono. Nell’androne c’era solo un vecchio baffuto, mezzo addormentato. Sàndor si avvicinò e gli bisbigliò qualcosa; il vecchio fece un impercettibile segno col capo e i due si avviarono su per le scale, male illuminate. Sàndor pareva eccitatissimo e parlava ad alta voce, un po’ sguaiatamente, mentre Ferenc provava sempre più disagio. Un bordello… Lukacs non avrebbe certo approvato; o no? Chissà se György era mai stato in un bordello? Forse, dopotutto… Ma poi cosa avrebbe fatto? Si doveva denudare? Per fortuna con l’idea delle terme aveva la biancheria pulita… Una donna… Effettivamente era forse l’unico vergine del Politecnico, ma…

Il flusso dei pensieri si interruppe con lo scampanellio di Sàndor. – Apra, apra, madame Margit! Apra, accidenti!

La porta si aprì e apparve una donna sui cinquanta, piacente, coi capelli corvini. Doveva essere stata una donna molto bella. Vestiva con una certa eleganza, un trucco leggero sottolineava occhi già grandi e scrutatori…

– Calma, accidenti a voi! Volete far venire tutta l’Államvédelmi del circondario? Ah, signorino Sàndor, e chi poteva essere se non lei a fare questo fracasso? E chi mi ha portato? Un suo compagno studioso?

– Carissima madame Margit le presento il mio più caro amico, il signor Ferenc Kun. Studente e studioso, allievo prediletto di György Lukàcs, patriota della prima ora, filosofo e, qual che più conta – e qui Sàndor abbassò la voce e mimò un fare cospiratorio – assolutamente vergine!

Ferenc si sentì morire. Profondamente vergognoso divenne rosso come mai pensava si potesse diventare rossi. Voleva protestare qualche scusa ma la voce non gli usciva, la mascella era bloccata, lo sguardo fisso e, in un remoto anfratto di consapevolezza, si accorse di essere rigido come un baccalà, cosa che lo fece vergognare ancora di più, sempreché possibile.

La signora Margit lo squadrò dall’alto in basso con un sorriso fondamentalmente materno.

– Signor Kun, gli amici di Sàndor sono sempre ospiti graditi. Accomodatevi.

La voce della donna era calda, amichevole, senza sottintesi. Gradevole. Chiedeva una resa onorevole, e prometteva accoglienza affettuosa. Ferenc si arrese subito.

Attraversarono un piccolo vestibolo che immetteva in una sala ampia, con decorazioni parsimoniose, tendaggi pastello, qualche natura morta alle pareti… il contrario di ciò che si aspettava Ferenc. Anche le ragazze, ce n’erano tre al momento, anche se vestite in maniera molto sobria non apparivano sguaiate. Niente di torbido, niente di peccaminoso, niente che corrispondesse al cliché di bordello che Ferenc aveva in mente.

– Signor Kun – l’apostrofò la padrona di casa – se mi permette, data la sua condizione privilegiata – così disse, senza ironia: “privilegiata” – mi permette di suggerirle la ragazza adatta per lei?

– Ma… certo!

– È inteso che se non le piace la può cambiare! Oltre alle tre che vede qui ne abbiamo altre quattro nelle camere, e al momento sono tutte libere.

La signora Margit si avvicinò a una delle tre e le bisbigliò qualcosa. La ragazza si alzò e si avvicinò a Ferenc.

– Buongiorno. Sono Rósza.

Era una ragazza abbastanza alta, quasi come Ferenc. Castana, con occhi incredibilmente scuri. Aveva uno sguardo penetrante, quasi indagatore, e una bocca carnosa con una piega malinconica. Guardò fissamente Ferenc per qualche istante, poi gli prese una mano e si avviò verso le camere, col ragazzo dietro, docile, quasi trasognato.

– Brava Margit – esclamò Sàndor – la tenera Rósza è quel che fa per il mio caro amico. E per me… – fece, avvicinandosi a una delle due ragazze rimaste – la focosa Edit! 

Le diede una rumorosa pacca sul sedere e si mise a ridere assieme alla ragazza. Si diedero un bacio appassionato e si infilarono anche loro verso le camere.

Domenica 4 Novembre

– Chi è insomma? – Borbottò con voce impastata Ferenc sentendo battere alla porta.

– Alzati Ferenc! Presto!

– Ma che vuoi? Che ore sono?

– È ora che ti svegli, vecchio libertino. La festa è finita, c’è da fare la rivoluzione!

Ferenc emerse dal sonno profondo in cui era immerso. Si guardò intorno. Sul letto, accanto a lui, Rósza si stava svegliando. Era splendida. Era dolcissima. Ferenc ne era innamoratissimo e pensava di farle una seria proposta…

– Insomma, apri questa porta?

– Arrivo, calmati – Ferenc saltò giù dal letto in brache di cotone e aprì all’amico. Sàndor era vestito di tutto punto, con lo sguardo ironico di sempre. Ma Ferenc colse una nota malinconica che gli pareva violasse il bel viso dell’amico.

– Che c’è? Tutto bene?

– Gli orsi sono arrivati.

– Come? 

– I russi. I sovietici. Come te lo devo dire? Siamo invasi!

– Oh bastardi! E quanti sono? Dove?

– Mi ha chiamato mio cugino Béla, da Gyöngyös, dice che non ha mai visto una cosa simile, parla di migliaia di cari armati e un numero impressionante di uomini. Ma quello è sempre esagerato. Muoviti. Pare che entro un paio d’ore saranno in città. Ti aspetto sotto.

Ferenc rimase in piedi, sulla soglia, guardando l’amico allontanarsi. Allora era così che doveva finire. Nagy non era bastato. I russi non avevano perdonato. L’Occidente non si sarebbe mosso. Era dunque così che sarebbe finita… Si girò verso il letto. Rósza lo guardava in silenzio. Aveva gli occhi umidi. Rósza. Il suo amore. Ed era già tutto finito. Così in fretta.

Ferenc si vestì in silenzio. Nessuno dei due disse una parola. Abbottonatosi il panciotto Ferenc si abbassò su di lei, le diede un bacio sulla fronte e uscì.

Di sotto Sàndor stava bevendo un caffè. La signora Margit e alcune ragazze stavano attorno alla radio che trasmetteva il messaggio di Nagy:

Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero.

Non c’era neppure bisogno di leggere fra le righe il messaggio di uno sconfitto. Di un popolo già sconfitto. Di un popolo che, già sconfitto, avrebbe saputo comunque pagare il prezzo necessario per onorare tale sconfitta. Perché ci sono molti modi per essere vinti, e il popolo ungherese, Ferenc lo sapeva bene, avrebbe scelto il più sanguinoso.

Bevve un caffè. Poi, nel salutare madame Margit, fece il gesto di portare la mano al taschino della giacca, per cercare il portafogli. Un leggerissimo gesto di diniego della donna lo dissuase.

– Andate ragazzi. Andate adesso. E che Dio sia con voi.

Uscirono alla pungente aria novembrina. I due amici. Si guardarono in silenzio.

– Allora?

– Beh, io sono destinato alla milizia del consiglio operaio. È previsto che si raduni al parco Egyetemisták. E tu?

– Il mio gruppo dovrebbe barricare Budai ùt… andrò là.

– Va bene. Allora… ci vediamo…

– Sì, certo. Ci vediamo…

Sàndor si incamminò verso il ponte Margit. Non si voltò mai. Ferenc lo guardò alcuni istanti. Si girò a guardare il bordello. Fece un sospiro profondo e si incamminò a sua volta.

***

L’Armata Rossa raggiunse Budapest il 4 Novembre 1956 con circa 200.000 uomini e 4.000 carri armati, più di quanti Hitler ne avesse scagliati nel giugno del 1941 contro l’Unione Sovietica nell’Operazione Barbarossa. Ci fu un’accanita resistenza nei centri operai, ma la sproporzione abissale delle forze in campo fu tale che le resistenze ebbero comunque vita brevissima. Morirono oltre 2.600 ungheresi e 720 soldati sovietici. 250.000 ungheresi riuscirono a riparare in Occidente. Imre Nagy, la sua famiglia e altri collaboratori trovarono riparo nell’ambasciata jugoslava. Traditi da Tito, Nagy, Maléter e Gimes verranno poi impiccati come traditori. 

I personaggi, e il contesto del racconto, sono ovviamente immaginari. 

Una prima versione, con altro titolo, è di dieci anni fa; la presente versione (con correzioni minime) è stata selezionata da Historica edizioni e inserita gratuitamente nell’antologia Racconti di libertà, vol. 1, edita nel maggio 2023.

Vi riproduco la coloratissima copertina.


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