La strana piega che prese la vita di Fatma immediatamente dopo il matrimonio

Fatma, Fatma, dolce ragazzina, cara, dolce Fatma… Era crescita così, la dolce Fatma, la gentile Fatma. In sostanza, ormai lo capiva, intendevano l’ingenua Fatma, Fatma non mai esattamente cresciuta, un po’ bambina, un po’ bisognosa di protezione. Un po’ sciocchina. Realizzò poi la fortuna di questo nome strambo, com’erano un po’ strambi tutti i nomi di famiglia; almeno aveva evitato l’impossibile Fatmina, o altri diminutivi che, comprendeva, l’avrebbero inchiodata a un destino diverso. Era certa che se fosse stata Rosa, Ester o, che so? Francesca, sarebbe stata ricordata per sempre come una Rosina, una Esterina o peggio una Checchina disgraziata e per sempre ingenua, per sempre sciocchina, per sempre diminuita sin nel nome.

Oh, ma era cresciuta, Fatma! Lei vedeva negli occhi dei parenti e dei conoscenti che la vedevano come un tempo, la bimba con gli occhioni, che andava a letto con la bambola quando le amiche, a quell’età… Beh… quelle cose delle amiche le aveva recuperate, e alla grande… Oh, se le aveva recuperate. Fatma pensava che gli occhioni, le boccucce, le bambole, i sogni infantili non le fossero mai esattamente appartenuti. Non erano, come dire? ritardi suoi, se proprio vogliamo chiamarli “ritardi”, no, piuttosto era una sorta di malìa della casa. Sì, pensava così Fatma, anzi ne era certissima. La sua casa d’infanzia, coi merletti, i sottopiatti, l’enorme armadio di bambole che appartenevano alla genealogia femminile della casata, la stanza dei bottoni, così chiamata da tutti perché lì le vecchie di casa, un tempo, recitavano il rosario cucendo e sferruzzando, ma anche l’anima dei gatti, che non erano mai gatti come tutti gli altri, insomma: quella era una casa fuori dal tempo, e lei era cresciuta con addosso appiccicata una patina di sciocchezzaggine veramente, ma veramente, mostruosa. Così finì col ragionare Fatma. Si chiamava così una nonna la cui madre s’era innamorata di un egiziano, agli inizi del ‘900, e che doveva avere capito male la pronuncia del nome della di lui genitrice. Fatma. Sempre meglio di Deborah, Samantha e della gamma di colori che popolava la classe del liceo, con due Chiare, una Celeste, un’Azzurra e una Luna.

Vabbè.

Pensava, raramente, a come sarebbe stata la sua vita se non avesse conosciuto Brando. Sarebbe ingrigita in quella casa, più inconsapevole, più banale… più trasparente e rarefatta, come diventavano trasparenti e rarefatte le donne in quella casa, in quella famiglia.

Brando. Non era neanche bello (non che lei guardasse particolarmente le bellezze maschili, all’epoca) ma l’incuriosì il nome. Un altro infelice col nome di qualche nonno cui si era ritenuto essenziale tributare omaggio. Ma come si fa a chiamare un bimbo “Brando”? Brandino? Brandolino? Brandetto? Passò una serata a sorridere fra sé di quel buffo nome, quando lo conobbe a casa di Celeste per preparare l’esame di maturità. Era un cugino umbro. Il nome non è la cosa; lei andava benissimo in filosofia, e quindi lo sapeva, ma giocherellando nella sua fantasia con quel nome, Brando pian piano si materializzava, prendeva corpo. Corpo. “Corpo” era una parola neutra, fino al giorno prima; come tavolo, sicomoro e stalagmite. Ma stava diventando quasi una parola peccaminosa. Quando Fatma incominciò a percepire un sottilissimo e strano turbamento, per lei non c’era più nulla da fare. Non lo sapeva ancora, naturalmente.

Tutto il resto fu banale innamoramento, frequentazione, esplorazione, scoperte incredibili sul proprio e l’altrui corpo, poi amore intenso, poi sesso (ma questo è scontato), e via via fino al matrimonio. Ma non è questo il centro della storia, che sarebbe solo la storia dell’ingenua Fatma che diventa la donna Fatma. Roba già vista.

E’ che l’ingenua Fatma, in quel passaggio ormonale, psicologico, antropologico, certamente sociale, si potrebbe dire epifanico, imboccò un qualche sentiero secondario, così, per caso, vallo un po’ a sapere. Tant’è. Quanti si sono persi, lì in quel paesaggio sconosciuto, chi fermo a tracciarne una mappa infinita, chi correndo pensando di arrivare presto chissà dove… A Fatma piaceva questa immagine (lei amava trasformare le emozione e i concetti in immagini…) e pensava a se stessa come una sorta di Alice capace di vedere, di assimilare, di capire senza mai fermarsi troppo da quell’impostore del Brucaliffo. Ah, l’ingenua Fatma, la dolce Fatma, Fatma la sciocchina, che aveva attraversata l’infanzia come fiaba, la giovinezza come sogno e poi, e poi, epoiepoiepoi…

Brando durò poco. Povero Brando. Stava là, da qualche parte, a tracciare mappe… Quando lo pensava così a Fatma scappava anche un po’ da ridere: Brando il loico, il razionale, l’analizzatore, il fine argomentatore… Che noia, Brando. Era rimasto indietro, Brando Brandino Brandolino. Cesare fu il pretesto. Aveva… gli occhi verdi? Fatma non riusciva più a ricordare bene, in seguito. D’altronde era solo un pretesto, no? Come poteva altrimenti lasciare Brandolino Brandetto a così pochi mesi dal matrimonio? Povero Branduccio, come ci rimase male.

Lui la buttò subito sull’irrazionalità della cosa, sull’impegno e la responsabilità e – osò dire – sulla sua immaturità, forse il matrimonio l’aveva un po’ spaventata, povera bimba. Fatma non si scompose e imparò una cosa nuova e meravigliosa: poteva ascoltare le sciocchezze di Brando senza provare alcuna emozione. Brando era lì, e cercava seriamente di “spiegare” a Fatma perché mai la sua pretesa… che era un fulmine a ciel sereno… e pensa alla gente e tua mamma poveretta… Il culmine, quando per tagliar corto quella pantomima Fatma gli disse di Cesare, fu il “Ma io ti perdono”.

Ma io ti perdono. Fatma lì per lì non capì. Non tanto le parole, che non erano difficili, ma proprio il senso. Perdonarmi, pensò… E all’improvviso scoppiò a ridere, di quella risarella irrefrenabile che prende a volte in situazioni serene e complici, fra amiche, dopo un buon bicchiere di rosso. Perdonarmi? Riuscì a dire fra una risata e l’altra. Ma che tesoro che sei! Gli diede un bacio sulla guancia e andò di filato da Cesare, che forse aveva gli occhi verdi ma non si ricordava più bene, dopo alcuni anni, perché tanto Cesare era solo un pretesto.

Dello sconcerto nelle famiglie, fra gli amici, i colleghi, i vicini, i casigliani tutti non si curò proprio. Ma povera Fatma cosa le hai fatto? fu il tormentone che dovette subire Brando per mesi. La mamma di Fatma giurò fino alla morte che la sua splendida bambina, così brava e buona, era stata maltrattata in modo indicibile dal marito, che probabilmente era un perverso, chissà cos’aveva preteso da lei. D’altra parte la famiglia di Brando, pur con qualche dubbio, difendeva il poveretto, se non altro perché gli prese un tremendo esaurimento nervoso.

Ma di tutto questo Fatma seppe solo molti mesi dopo, quando anche Cesare, che forse aveva gli occhi blu, pensandoci bene, era diventato un ricordo sbiadito.

***

Fatma, che aveva preso quello strano sentiero che in pochi trovano, quando era una ragazzina, era diventata una bella donna di trentasette anni quando un camionista ubriaco (“italiano”, precisarono i giornali) la uccise. Al funerale partecipò, naturalmente, anche Brando, perché la sua assenza non sarebbe “stata bene”. C’era qualche collega di Fatma, uno zio e una piccola folla di facce sconosciute. Diversi uomini, qualche donna, varie età. Brando li osservò. Avevano conosciuto Fatma ma lui non li conosceva. Chi erano? Cos’aveva detto, fatto, vissuto, Fatma con loro?

Dopo l’inumazione una donna sui quaranta, con orecchini di zaffiro assolutamente inadatti alla circostanza, così pensò Brando, gli si avvicinò. Sei Brando? Io sono Eleonora, un’amica di Fatma… Mi spiace… Beh, saprà che eravamo separati, quindi… Sì, sì, lo so. Ho pensato… Mi deve scusare, sa, ero combattuta… ma poi ho pensato che dovevo dirglielo. E’ stata felice. Come scusi? Fatma. E’ stata felice.

Prima versione: Febbraio 2018. Con correzioni minime su Alamagoozlum  18 marzo 2023.


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