Un magnifico autunno

Si sedette lentamente nella sua poltrona in veranda e appoggiò il bastone al bracciolo. Era un magnifico autunno. I colori in quella stagione erano brillanti, pulsavano nell’aria tersa e lui credeva di distinguere le pennellate di rosso e di giallo e di ocra e di terra di Siena e di senape e di cardinale una a una, come se un piccolo satiro fosse lì in quel momento a dipingere la natura per lui. E in mezzo qualche verde. E bruno, nocciola, marrone. E il nero della macchia giù in fondo alla valle, nello scuro. E l’azzurro del cielo, che per un attimo gli strinse il cuore.

Osservava tutto questo con leggerezza, con tenerezza quasi. Vedeva, laggiù a sinistra, lontano, Vincenzo, che ammucchiava le stoppie residue e le erbacce per dar loro fuoco. Si muoveva lentamente anche lui, ormai, ma non poteva rinunciare ad accudire la sua terra. Molti anni prima andavano assieme a cinghiali, quando ce n’erano troppi sui monti e scendevano sempre più giù in cerca di cibo. Squadre anche di quindici, venti uomini, e i cani che vibravano e latravano e uggiolavano e poi saltavano, correvano, insidiavano le prede in un cerchio sempre più stretto e bam, Bam, BAM! i fucili, e warf, Warf, WARF! i cani, e dai, spara, Eccolo! PRENDILO! gli uomini… 

Un gruppo di capinere litigava sul pruno. Alzò lo sguardo e ne vide un paio saltellare su un ramo. A Clotilde piacevano tanto le capinere. Sul tavolinetto davanti a lui fumava un tè. Prima non c’era. Si vede che si era appisolato qualche istante e Linda aveva preferito non disturbarlo. Clotilde amava il tè. Lui lo beveva per abitudine, perché era piaciuto a lei. Avrebbe preferito un caffè, bello nero e senza zucchero, ma Linda diceva che gli avrebbe fatto male. Ah, il caffè… Lui non era come certuni che solo in Italia si beve il caffè buono. Gli piaceva il caffè americano che consentiva lunghe sorsate, quello filtrato del nord Europa. E quello turco, che ti insegna la pazienza, perché devi aspettare che la melma aromatica si depositi per liberare quel piccolo sorso stupendo. Bevuto in quei sensuali bicchierini che usano i turchi gentili, nel Grand Bazaar. Anche il grande mercato coperto di Budapest era bello. La gente che guarda, che cerca, osserva, finge di non osservare, chiede, passa, torna… A New York i mercatini lungo le strade lo avevano stupito a Chelsea, dove vecchine secche secche esponevano poche e preziose parti della loro vita. Clotilde aveva comperato là dei curiosi orecchini d’avorio, che poi scoprirono essere ottomani, chissà che storia avevano, e poi li perse e anni dopo li ritrovò simili in un altro mercatino, non a Chelsea… come si chiamava quell’altro quartiere…?

Sorbì il tè ma era ormai freddo. Una folata di vento fece volare un po’ di foglie del pruno, brune e austere. Gli piaceva moltissimo quell’albero, l’avevano piantato, lui e Clotilde, tantissimi anni prima. Anche gli ulivi gli piacevano molto, con quelle foglie grigio-verdi, metalliche, e quei tronchi contorti come ormai lui stesso. Contorti. Austeri. Con frutti piccoli piccoli faticosi da raccogliere e così parchi nel loro succo. Si sentiva pienamente rappresentato. Piegato e contorto, con poco succo ormai. Ma un succo ricco, nobile, saporito. A tutto c’è un perché. E una stagione. Gli venne da pensare che la giovinezza era come una pesca golosa e la maturità come una mela nutriente… Gli piacque l’analogia. Sì, aveva morso ferocemente la sua pesca e si era nutrito di mele. E ora aveva un po’ d’olio stentato, l’ultima offerta. Si compiacque un po’ del suo essere ulivo, del suo avere ancora qualche goccia d’olio da donare. Da donarsi.

Pensava fra sé; sul tavolino c’era il libro che stava rileggendo, il suo amato Dostoevskij, una lettura adatta alla sua età; non capiva come si potesse capire Dostoevskij da giovani. Ma non si decideva. La brezza leggerissima accarezzava appena le sue rughe, solleticava la sua corta barba, e se chiudeva appena gli occhi la fantasia partiva, i ricordi birichini lo solleticavano. Clotilde che sedeva vicino a lui e guardava quello stesso panorama, con Marco sulle ginocchia, silenzioso, che ascoltava i racconti di fate. E la cagna Luna seduta ai suoi piedi, che cagna stupenda che era. E quando si trovarono a Londra senza valige e documenti e dovettero andare all’Ambasciata. Ah, sì, e quella volta che si era buscato la polmonite e Clotilde era stata tre giorni vicino a lui praticamente senza dormire… Era stata una buona vita, no? Non bellissima. Non esente da dolori, no, questo proprio no. Ma buona, come dire? ‘Buona’ non significa ‘bella’. Una vita non può essere bella, cosa vuole dire bella vita? lo si dice dei lazzaroni… Buona sì, buona. Generosa. Piena. Con tanti incontri. 

Le ombre si allungavano. Rapidamente, gli pareva. Sorrise. Incominciò a sentire un po’ freddo. Che magnifico autunno! I colori stavano mutando su sfumature rugginose, brune, malinconiche. Facendo forza sul bastone si alzò, sempre lentamente, e rientrò in casa.

Non si può chiamarlo “racconto”. Troppo breve e intimista. Però mi piace. Prima versione: novembre 2012. Con minime correzioni su Alamagoozlum: 7 gennaio 2023. Foto del 3 ottobre 2020.


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